Ciao Pirati dei ratti!!!
Con papà stiamo raccogliendo un po’ di storie che voi lettori ci inviate. Stiamo anche scrivendo con il nonno Ettore la sua vita passata in Italsider e spero che riusciremo a breve a pubblicarla.
Il racconto che segue ci è stato inviato dalla signora Mirta Marinari la quale ringraziamo molto. Dopo questo racconto seguiranno altri racconti che la signora Mirta ci ha inviato
Spero che vi piacciano, a noi leggerli in famiglia ci ha fatto commuovere e a volte ridere ripensando ai racconti dei nonni!
Buona lettura
Sono nata il 16 Luglio 1923 a Genova, in cima a Salita della Misericordia, nell’ultima casetta di questa scorciatoia che portava da Via San Vincenzo a Via Ugo Foscolo, oggi sbarrata al passaggio da moltissimi anni, circa 10 anni dopo il suo totale sinistramento.
Otto mesi prima della mia nascita la mamma aveva fatto un sogno e, siccome la chiamavano la “strega buona” per le sue doti premonitrici, si mise subito in agitazione e lo raccontò alle sue scolare di sartoria. Aveva sognato la mia nonna paterna, morta di “spagnola” qualche anno prima, che le metteva fra le braccia un fagottino con una bimba appena nata. La mamma, che mi aveva desiderato tanto, anche quando papà non voleva ancora figli, esclamò “Com’è bella!” E la nonna, sempre in sogno “E’ bella perché assomiglia tutta a me…” e sparì. Quando mamma si svegliò, andò subito a controllare il calendario dove annotava le date delle sue mestruazioni (che allora si chiamavano “il marchese”) e capì di essere incinta. Quando nacqui si constatò che ero veramente bella e che assomigliavo veramente a nonna Angela. Così mi imposero il suo nome. Possiedo soltanto una piccola foto di questa nonna che non ho mai conosciuto ma, anche se è sbiadita dal tempo, si può ammirare ugualmente la sua splendida bellezza, eleganza e raffinatezza di donna nobile qual era.
Ed ora torniamo alla storia di Salita della Misericordia. Dopo la mia casetta non ce n’erano altre ma, sopra la fontanella, c’era un alto muraglione che serviva a contenere la terra che formava una specie di piazzetta arida e brulla, senza un filo d’erba, che tutti chiamavano “Rampa” perché, più che una piazza, era un’erta con un’unica nota di verde costituita da un solo cipresso sotto al quale gli uomini del luogo avevano costruito con dei vecchi legni una specie di tavola e una panca. In seguito gli stessi uomini costruirono anche un campo da bocce, difficile da farsi sfidando la salita della rampa, dove noi bambini giocavamo. Ma più spesso, per non percorrere quel lungo tratto di strada, preferivamo giocare in Salitadella Misericordia.
La Rampa era contornata da tutte le casette che formavano l’ultimo gruppo di abitazioni di questa specie di paese nel centro della città, a due passi dalla Stazione Brignole, e dalle loro finestre, gli inquilini si parlavano o litigavano, a seconda dei casi.
Noi bimbi di allora non avevamo giocattoli e ci divertivamo rincorrendoci o giocando al girotondo o a nascondino. Oppure giocavamo con le pietre, oppure, massimo della ricchezza, con le “agrette” che erano i tappi metallici delle bottigliette di non so quale bibita.
Sopra la fontanella a cui ho già accennato, piantate nella terra secca della Rampa, c’era un ammasso di tettoie vecchie e arrugginite che costituiva la “tintoria” di un certo Vincenzo Dronti, il boss del posto, detto “Visse”, che abitava nella mia scala, all’ultimo piano. Nelle altre casette abitavano almeno altre sei famiglie Dronti e, in ognuna di queste, un figlio maschio si chiamava Vincenzo come lo zio, perciò, per distinguerli l’uno dall’altro, venivano chiamati con un diverso diminutivo:e così vennero fuori, oltre al capostipite Visse, Cencino, Cenci, Sino, Vince, Visensu e non ricordo cos’altro.
E questa, come diceva il mio papà, era la dinastia dei Dronti.
Ma adesso arriviamo all’invenzione del secolo fatta da Visse che, per recarsi al suo luogo di lavoro, la cosiddetta “tintoria di lamiere”, avrebbe dovuto fare, come tutti, il lungo giro per Via Ugo Foscolo. Invece, con molto ingegno, piantò nel muretto del “caruggiu” di fronte a casa sua, dei grossi chiodi uncinati, chiamati in genovese “cancaeti”, aggrappandosi ai quali poteva salire e scendere da casa sua alla “tintoria” e viceversa, a seconda di ciò che doveva portare o prendere nel suo appartamento.
E questo fu l’antenato del moderno sport chiamato “free climbing”.
Oggi, nel 2011, da Via Ugo Foscolo si vede ancora il luogo dov’era la Rampa ma, anche se adesso è solo un ammasso di rovine, io la vedo ancora con gli occhi della mente com’era una volta, brulicante di gente e di allegria, anche se da ben 66 anni tutto è morto. E pensare che è il centro di Genova! Ma evidentemente il Piano Regolatore se ne infischia!